La biografia scritta dal giornalista e critico musicale per un punto sulla figura di Battisti nel 2023

Come vuole collocarsi questa tua biografia, apprezzata anche da Mogol, nella bibliografia battistiana?
«È una biografia integrata da interventi di critica, ciò che faccio abitualmente. L’obbiettivo era quello di raccontare l’artista nella maniera più documentata e dettagliata possibile – come sappiamo si è sempre trattato di un personaggio molto schivo e credo che molto ancora non si sappia né probabilmente si saprà mai –, ricollocando Battisti nel posto in cui merita, cioè al vertice della canzone d’autore italiana, insieme ai vari De André, De Gregori, Guccini e Conte. Nonostante non fosse propriamente un cantautore, come lui stesso per primo non ha mai amato definirsi».

Come sarebbe più opportuno definirlo?
«Prima di tutto un musicista. Franco Mussida ha detto che in sala d’incisione era “un musicista tra musicisti”. Nel libro io lo definisco in coppia con Mogol – e poi anche con Panella – un “cantautore a due teste”. Lavorava in maniera diversa con gli autori dei testi rispetto ad altri “colleghi”. Ha avuto il pregio di innovare così tanto la canzone in Italia da meritare evidentemente ben maggiore attenzione di quella che ha avuto dal punto di vista critico. Senza considerare inoltre quanto oggi probabilmente sia ancora di più al centro dell’immaginario musicale nazionale che in passato».

L’artista musicale più popolare di sempre in Italia, con un repertorio di melodie e liriche parte del nostro patrimonio culturale e al tempo stesso quello personalmente più sconosciuto. Con quali difficoltà hai affrontato la stesura del libro riguardo le fonti?
«Nell’arco di circa un anno di lavoro le fonti sono state più che soddisfacenti per la prima parte della sua carriera: ha rilasciato molte interviste nonostante le sole due tournée e poche comparsate televisive. Era ancora un personaggio pubblico: il periodo del lungo sodalizio con Mogol è più o meno tutto coperto anche dai ricordi di molte persone che hanno lavorato o collaborato con lui. Più complicato, se non impossibile ancora oggi, il periodo Panella. Fino ai primi anni ’80 sono reperibili le testimonianze dirette del tecnico Dario Massari e Adriano Pappalardo, ma dalla fine di quel decennio in poi non ha più frequentato nessuno. Motivo per cui la parte finale del libro risulta inevitabilmente più critica e meno cronachistica. E credo che forse sia giusto così: Battisti non voleva che la sua vita fosse pubblica e quindi anche questa biografia ne tiene conto».

Stiamo alla musica: come si può far comprendere a un giovanissimo quanto fosse “avanti” Battisti nel panorama italiano dei suoi anni e non solo?
«Si pensi a singoli di puro rock psichedelico, ma originalissimi, come 29 Settembre o Non è Francesca. Nessuno faceva niente del genere nel 1967 in Italia. E non dimentichiamo che nel 1971, mentre Battisti dopo l’album Amore e non amore sta registrando Umanamente uomo con molti brani strumentali e prog, Claudio Baglioni, per fare un esempio, cantava Questo piccolo grande amore… per dire che anche Baglioni ha composto pagine eccellenti, ma in seguito. Bisogna sottolinearlo: Battisti non solo era clamorosamente più avanti di tutti, sperimentatore e ispirato dalla musica internazionale – in pieni anni ’70 da gruppi come Doobie Brothers e Steely Dan o pretendendo in formazione un chitarrista come Ray Parker Jr. dei Raydio per l’album Io tu noi tutti (1977), per fare un esempio – ma era pure primo in classifica».

Nessuno di paragonabile?
«Nessuno. Per fare un esempio Francesco De Gregori sarà un vero gigante negli anni ’80 – e tra l’altro tra i primi a riconoscere la grandezza di un album come Don Giovanni (1986) – ma non si può paragonare a Battisti. Perché? De Gregori non ha mai espresso una musicalità simile a quella di Anima Latina (1974). La verità è che diventa davvero complicato fare paragoni: forse la differenza sta nel fatto, come abbiamo detto, che gli altri fossero cantautori e Battisti un musicista. Un musicista unico, autodidatta, che suonava la chitarra a modo suo, non virtuoso ma molto raffinato, come notò subito Roby Matano. Leggendo la biografia si capisce come la clamorosa rilevanza di Battisti nello scenario italiano non abbia eguali».

Le canzoni di Battisti raccontano l’Italia e tu hai quindi raccontato anche l’Italia, musicale e non, di quegli anni. È stato inevitabile?
«È stato naturale, perché musica e canzoni sono inevitabilmente legate al momento storico e politico in cui sono state scritte o hanno avuto successo. In particolare gli anni ’70 sono stati per l’Italia particolarmente “vibranti”, nel bene e nel male. E poi è stato doveroso perché, essendo la vicenda battistiana parte integrante della nostra storia, andava indagata. Così come necessario integrare la narrazione con elementi dell’evoluzione sia musicale che sociale».

Ernesto Assante – Foto Claudio Sforza

Parlando di sociale molte delle canzoni scritte con Mogol descrivono personaggi e momenti anche critici della quotidianità: un impegno tutt’altro che qualunquista, così come oramai stonata una certa immagine antifemminista che per tempo si è voluta passare. Da dove nasce questa visione, imparentata per certi versi a quella che vorrebbe Battisti di destra: politica o controcultura?
«La privacy delle comunicazioni di Battisti ha fatto sì che molti giungessero a proprie insensate oltreché infondate conclusioni, mai confermate né smentite dal diretto interessato. Nel libro sottolineo come essendo stato lui musicalmente progressista, lo fosse naturalmente anche per inclinazione. Tutt’altro che di destra, più legato semmai – come riporto attraverso vari aneddoti – al mondo della sinistra “hippy”. C’è addirittura l’episodio in cui a metà anni ’70 incontra gli organizzatori di Re Nudo per parlare di un concerto, che poi non si farà. Evidente che fosse disinteressato alla politica – anche se come argomento lui la politica la conosceva più che bene – perché il suo obbiettivo primario era essere un musicista, un artista che parlasse attraverso la musica. Credo che, se si capisce quello che Battisti vuole dire attraverso la sua musica, si possano a mettere insieme i pezzi di una certa critica sociale in un grande universo costruito con la complicità di Mogol, a sua volta ancora meno attento alla sfera politica. Risultato? Quando c’erano cortei, manifestazioni e cantanti impegnati loro non c’erano. Questa assenza ha portato alcuni a pensare che fosse davvero qualunquista o peggio di destra. Io ho voluto ristabilire i confini di una realtà, a mio avviso, totalmente diversa».

Il cuore di questa biografia è rappresentato, come ci si aspetta, dalla vicenda del popolare binomio Battisti-Mogol. Oggi si può dire però che Battisti non sia (stato) solo Mogol?
«Per quanto il loro resti un capitolo importante e imprescindibile della canzone italiana, sì, oggi si può dire che Battisti non sia più legato esclusivamente a Mogol. Prova ne sia ad esempio il numero di cover band dal solo repertorio Battisti-Panella. I giovani, grazie a una circolazione maggiore e più agile su piattaforme come YouTube, stanno sempre più scoprendo il Battisti anni ’80 e ’90. Spero anzi che i brani di Velezia e Panella possano presto essere interamente disponibili anche su altre piattaforme: un repertorio da scoprire e riscoprire soprattutto per tutti coloro che oggi ormai ascoltano la musica esclusivamente in questa modalità».

Oggi, rispetto agli anni della loro pubblicazione, senti ancora resistenza alla produzione discografica dei “bianchi”?
«Nel libro preciso proprio il fatto che molte di quelle canzoni siano tutt’altro che difficili. Ma avete mai ascoltato i testi delle canzoni di Franco Battiato? Canta versi molto più assurdi e complicati di quelli scritti da Panella. Eppure le ascoltiamo con piacere. Così come alcuni testi di De Gregori, completamente incomprensibili e criptici, ma non ce ne siamo mai preoccupati. E perché allora dovrebbero preoccuparci le canzoni di Panella-Battisti? Oggi sarebbe davvero un vecchio luogo comune dire che siano “difficili”. Semmai non cantabili, ma molto godibili».

Lucio Battisti, “Images” (1977)

Sempre attento e musicalmente aggiornato al mercato straniero, nonché riconosciuto anche all’estero come valido autore da artisti come David Bowie, Paul McCartney e Pete Townshend, perché non è mai riuscito a ottenere il meritato riconoscimento internazionale?
«Credo che tutto sia stato segnato dal fallimento di Images (1977), come sostiene anche Franz Di Cioccio nel libro. Un fallimento che ha poi pesato nella volontà di non riprovarci più in seguito – esiste la registrazione inedita di una versione anglosassone dell’LP Una donna per amico, mai uscita sul mercato. Un tentativo nato imperfetto, anche per la volontà di Mogol di avere traduzioni letterarie dei testi. Richiesta peraltro insensata essendo lui il primo “irregolare” nel tradurre in italiano le liriche – ascolta Ragazzo solo, ragazza sola di Bowie. All’epoca ha pesato anche la pronuncia inglese non perfetta, oggi come oggi conterebbe meno. Quello inoltre era un momento in cui la canzone italiana circolava poco all’estero, oggi sarebbe più semplice. Se con le piattaforme i Måneskin possono diventare famosi in tutto il mondo, figuriamoci Battisti».

Certo possiamo dire che la canzone italiana in sé non abbia rappresentato un limite per il mercato estero.
«Sono d’accordo. Credo che – fatta ovviamente eccezione per l’Inghilterra – l’Italia abbia prodotto musicalmente in quegli anni la migliore canzone d’autore d’Europa, con il solo limite di essere cantata in italiano. Negli altri paesi abbiamo avuto meno cittadinanza, ma da Battisti in poi abbiamo prodotto la canzone europea più avanzata, elegante e intelligente. Se confronti i nomi di cantautori italiani a quelli di francesi o tedeschi o di qualsiasi altro paese in quegli anni, scopri che l’Italia detiene un patrimonio musicale inaudito. L’industria discografica italiana era però piccola e non poteva permettersi una dignitosa circolazione internazionale».

Lucio Battisti, “E già” (1982)

Tra le pubblicazioni di quest’anno su Battisti anche Scrivi il tuo nome su qualcosa che vale, saggio di Donato Zoppo sull’album E già (1982). Il tuo ricordo quando uscì questo primo album-capitolo del dopo-Mogol: le emozioni dell’ascoltatore di allora e la rivalutazione critica del giornalista di oggi, ad anni di distanza?
«Ricordo quando Gino Castaldo e io venimmo convocati alla RCA per ascoltare il disco. Io rimasi folgorato perché in quel periodo ero completamente dentro il mondo dei Talking Heads e quindi trovai eccezionale ascoltare un autore italiano che faceva la stessa musica! Lo ricordo come un disco meraviglioso, interessante, avanzatissimo e musicalmente dirompente rispetto al panorama dell’epoca. E di fatto – a parte il caso Battiato che si era già mosso rispetto all’elettronica all’alba degli anni ’70 e non “faceva testo” – si trattava del primo disco italiano di musica elettronica: il primo dei cantautori a scegliere in maniera così radicale la new wave. Peraltro l’unico in cui i testi sono sicuramente i suoi, tutti autobiografici, per quanto attribuiti alla moglie. È l’unico Battisti che racconta se stesso, il Battisti rivoluzionario in senso pieno. L’ho trovato e lo trovo ancora oggi un disco clamoroso, sotto tanti punti di vista».

E poi Don Giovanni (1986)?
«Poesia pura. L’unico album in cui Panella ha partecipato davvero alla composizione dei brani. E l’ultimo ancora cantabile, cosa che non sarà più nei successivi. Si può dire che non ci sarà più nemmeno una collaborazione vera e propria. Riascoltato oggi, come E già, continua a splendere».

Da L’Apparenza (1988) cambia tutto, persino il modo di comporre: dalla musica ispirazione per le parole ai testi di Panella musicati. E così fino a Hegel (1994). Con quali risultati od obbiettivi, dall’idea che ti sei fatto?
«Proprio qui sta il limite di non aver potuto parlare con Battisti. Ho chiacchierato con Dario Massari, uno dei responsabili del passaggio di Battisti all’era elettronica, mi ha raccontato tanti aneddoti, sicuramente lui ha avuto una prima grande influenza, ma è sempre difficile interpretare un racconto di seconda o terza mano. Tutto quello che ha operato Battisti è sempre stato il frutto di scelte precise, dietro c’è un ragionamento, un pensiero, mi sarebbe piaciuto sapere quale. Come punto fermo c’è sicuramente la scelta ponderata della non-cantabilità della canzone».

Panella affermò in un’intervista che “voleva togliere Battisti dai falò”.
«Quella di non farsi più cantare è una scelta radicale, al punto da non potere essere ascrivibile solo al fatto di rendere Battisti scientificamente non cantabile. Il punto sta nel capire il perché Battisti abbia scelto di spostare questa frontiera. Perché di fatto i bianchi sono dischi estremamente pop nella musica ma difficili da canticchiare? Solo lui potrebbe risponderci».

Nei primi anni ’90 citi l’episodio con Celentano e il mancato progetto discografico con Mina (H2o), eppure dopo Hegel (1994), ultimo capitolo che ha chiuso la collaborazione con Panella, si continua a parlare di un altro album inedito. Cosa si sa a oggi di queste registrazioni?
«Naturalmente non si sa nulla, solo supposizioni. Si ragiona per ipotesi e l’ipotesi è: “Esiste sicuramente qualcosa perché, nonostante la lunga malattia, Battisti lavorava sempre ed è probabile che ci sia una certa quantità di materiale”. E non parlo solo di un ultimo potenziale album, ma di anni di materiale inedito. Materiali che non ha mai dato alle stampe, probabilmente a ragione. In fondo se avesse voluto farceli ascoltare li avrebbe pubblicati. Sarebbe molto interessante poter ascoltare le versioni alternative dell’era analogica, vere opere registrate e poi scartate. Materiale magnifico per capire evoluzioni, ripensamenti, scelte e non scelte, ma più per un buon studioso o storico della musica leggera, piuttosto che come prodotto mercificato per un ascoltatore medio. Bisognerebbe capire quando gli scarti sono scarti e perché. Se mai potremo ascoltarli».

Nel puzzle che hai ricomposto c’è ancora qualche tessera mancante? Dell’ultimo periodo rimangono veramente solo le canzoni a parlarci di Battisti?
«Purtroppo non c’è veramente altro. Come nella prima sezione del libro mi sarebbe piaciuto sapere di più sull’uomo-Battisti, aspetto non indifferente. Lo ripeterò fino alla noia: la storia d’amore con la donna della sua vita, Grazia Letizia Veronese, secondo me è parte integrante della storia della sua musica. Sarebbe stato bello poterla raccontare – ovviamente solo in positivo, le polemiche non mi interessano. Se quell’ultima parte della sua vita fosse risultata un po’ più ricca sarei stato ancora più contento. Però rispetto le volontà della moglie e del figlio. Ci restano le canzoni e ci si può esercitare a capire la sua musica. Quello che voleva lui».

Penso a un verso della hit di questa estate: Alza il finestrino che stoniamo Battisti. Come sta arrivando l’immagine di Lucio Battisti ai giovani musicisti?
«Dalle piattaforme arriva molto il Battisti-Mogol, soprattutto Anima Latina, considerato a lungo un capitolo minore nella produzione, però forse uno di quelli che ha più influenzato giovani cantautori e rapper che lo citano. Credo che la sua influenza oggi sia più grande che mai, un faro. Semplicemente perché cercava l’arte nella popolarità. Anche sul piano dei testi Mogol ha avuto modo di esprimere la sua genialità con Battisti. Non lo ha più fatto così sistematicamente anche dopo».

Ernesto Assante – Foto Claudio Sforza

Che alchimia è stata quella di Mogol con Battisti?
«Come Lennon e McCartney, insieme valevano quattro. Era una coppia perfetta, al di là di ogni antipatia. Una coppia semplicemente arrivata infine alla consapevolezza di aver detto tutto quello che poteva dire con Una giornata uggiosa (1980), ultimo e forse meno originale dei loro dischi, sicuramente prima traccia di stanchezza della formula creativa. A quel punto meglio separarsi? O fare un disco ogni otto anni, che sarebbe stato discograficamente un capolavoro? Come doveva andare? É andata esattamente come doveva andare. Hegelianamente, per una usare una citazione involontaria (sorride)».

Quello che è rimasto di Battisti a testimonianza della sua immortalità, proprio come in un mito greco, è solo la sua voce. Spesso criticata, ma forse proprio perché così vicina alla verità della quotidianità, alla cantabilità e alla forte immedesimazione dell’ascoltatore non è forse stata in fondo proprio la sua forza, una grande rivoluzione musicale? Una naturalezza rock, che purtroppo non abbiamo potuto godere abbastanza in concerto.
«Sono d’accordo. Se Battisti non è il migliore cantante rock italiano poco ci manca! Interprete eccezionale delle emozioni che canta, dalla gioia al dolore. Ha cambiato il modo di cantare in Italia almeno quanto lo ha cambiato Dylan in America. Lui e Dylan hanno insegnato a più di una generazione ad andare oltre l’idea di canto tradizionale. Anche questa dovrebbe essere un’altra questione superata: negli anni di trap e rap ancora ci chiediamo come cantava Battisti? Ha sdoganato l’era in cui la credibilità dell’interprete conta ancora più che la sua abilità nel cantare. Ovvero: se devo esprimere qualcosa devo saperla dire in maniera credibile. Concedimi una battuta: non avremmo avuto Springsteen senza Battisti».

Che importanza ha per te questo libro nella tua produzione di giornalista e scrittore?
«Ho scritto tanti libri nella mia carriera e ancora ne scrivo tanti – recentemente ne è uscito uno proprio su Springsteen – ma a questo tengo tantissimo. Perché? Indirettamente racconta anche la mia vita. Da quando ho cominciato ad ascoltare i primi 45 giri di Battisti molto piccolo, nel 1970, insieme a quelli dei Beatles e Rita Pavone. Battisti è stata veramente un’illuminazione per me che, quattordicenne, scoprivo finalmente un artista rock italiano. Non rock’n’roll come Celentano, né “progressivo” in senso lato, ma “rock” per attitudine. Parlando di lui parlo di me. Cosa che credo valga per molti ogni volta che canticchiano le sue canzoni».

©Luca Cecchelli
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