Nell’anniversario dell’81° compleanno IndexMusic celebra Battisti raccontando una fase particolare della sua carriera: “E già“, primo album tra il post Mogol e la nuova era Panelliana. Un approfondimento su “Scrivi il tuo nome su qualcosa che vale“, ultima pubblicazione del giornalista, critico e studioso Donato Zoppo.

La copertina di “E già” (1982) ©Ph Gered Mankowitz

Quinto tuo volume dedicato a Battisti, del quale oggi sei uno tra i più appassionati ed esperti studiosi. Esistono ben pochi saggi riguardo “E già”: come nasce il desiderio di indagare e divulgare la realizzazione proprio di questo album, sicuramente tra i meno fortunati e (quasi) dimenticati della discografia battistiana?
«Già il solo fatto che si tratti di un album, come hai detto tu, poco fortunato, misterioso e quasi dimenticato è un buon motivo per parlarne (sorride)! Purtroppo è vero, E già (1982) è un disco poco fortunato perché al contrario di grandi classici come Il mio canto libero (1972) o Una donna per amico (1978), o lo stesso manifesto della ripartenza Don Giovanni (1986), è rimasto confinato allo status di cult-album per amatori. È misterioso perché è il primo LP che Battisti realizza senza Mogol e in completo silenzio stampa, dunque per la prima volta tutto ciò che sappiamo è solo nella musica e nelle note di copertina. È quasi dimenticato anche perché privo di grandi hit, di una promozione mediatica e concertistica e probabilmente anche perché inevitabilmente schiacciato tra la produzione di Mogol e quella di Panella. Eppure tutto ciò lo rende affascinante: meritava di essere approfondito».

Primo album senza Mogol. Pietruccio Montalbetti ha dichiarato nel libro che l’idea di lasciare Rapetti era già stata presa in considerazione più di una volta in passato da Battisti. Ciò avvalora una volta di più il fatto che la loro non sia stata una rottura solo per percentuali, ma anche per reali necessità artistiche?
«Ogni separazione, sia relazionale che artistica, nasce da lontano. Da antichi malesseri spesso sedimentati e mai affrontati subito. Nasce anche per varie motivazioni, ognuna delle quali diversa a seconda del punto di vista. Pietruccio fu confidente di Lucio e sapeva già che qualcosa non andava, ma al di là del suo ricordo credo che sia la storia successiva di Battisti a parlare chiaro: i suoi anni ’80 e ’90 sono stati artisticamente all’opposto dell’era Mogol, segno che aveva avvertito il totale esaurimento di una vena compositiva e la necessità di esprimersi in modo diverso, evitando di ripetersi – cosa che detestava – ribadendolo con una rottura radicale».

“La faccenda di una più equa suddivisione dei diritti,
come richiesto da Mogol, era presente,
ma a mio avviso non fu così determinante,
o perlomeno lo fu in misura minore”

Donato Zoppo, “Lucio Battisti – Scrivi il tuo nome su qualcosa che vale”, Compagnia Editoriale Aliberti (2023)

Nella ricostruzione della storia di questo LP – all’indomani de Una giornata uggiosa (1980) e prima dell’incontro con Panella – c’è la tua “integrazione” della vita di Lucio Battisti tra Roma, Londra e Rimini. Molto interessante questa tua cornice narrativa ricostruita con dialoghi ipotetici, in particolare nel caso di una verosimile esperienza di Battisti in una libreria di Rimini. Come nasce questa idea e fino a che punto hai giocato sulla conoscenza di quei volumi idealmente acquistati da Battisti?
«Dopo tante pubblicazioni, non solo su Battisti, ho avvertito l’esigenza di cambiare qualcosa nel mio stile e di arricchire – o semplicemente diversificare – il mio approccio saggistico da storico del rock, introducendo elementi più narrativi, ma con misura. La storia del Battisti silenzioso dei primissimi anni ’80 si prestava molto a un racconto del genere, così ho inventato questi dialoghi immaginari ma verosimili, che ho potuto scrivere soltanto dopo anni di studio e letture su Lucio. Insomma una variante narrativa con la quale ho aperto e chiuso ognuno dei quattro capitoli. I volumi a cui fai riferimento, quelli che faccio comprare a Battisti in libreria, sono in parte frutto della fantasia – senza esagerare e sempre col rispetto delle fonti – in parte di alcune letture attribuite a Battisti da Francesco Patrizi nel suo libro Lo spleen di Lucio (2022)».

Nessuna dichiarazione ufficiale rilasciata da Battisti dal 1979, dunque bibliografia e fonti dirette. Tra di esse le testimonianze di Gered Mankowitz e Dario Massari, che impartisce lezioni di elettronica e Fairlight a un curiosissimo Battisti, passando per Pietruccio Montalbetti, il nipote Andrea Barbacane e poi Claudio Bonivento, Patrizia Cirulli, Susan Duncan Smith, Mario Lavezzi, Piero Mannucci, Michele Neri, Francesco Paracchini e Dario Salvatori. Cosa ti ha stupito di più scoprire (e da chi) da queste testimonianze nella ricostruzione di questa oscura fase battistiana?
«È importante premettere che in materia battistiana, a partire grosso modo dalla morte nel 1998, tutti coloro che lo hanno conosciuto hanno già parlato e raccontato, quindi a oggi non c’è grande materiale inedito. Inoltre i più vicini e ascoltati, da Pietruccio a Mario Lavezzi, tendono anche a ricordare sempre gli stessi episodi. Anche in questo caso l’effetto sorpresa non c’è stato, pur ritenendomi un buon intervistatore e mettendo il mio interlocutore in condizione di pensare senza “rispondere col pilota automatico”. Mi ha colpito molto il ricordo di Dario Massari per due motivi: il primo è che lui è stato di fatto il maestro di elettronica di Lucio, quindi lo ha visto e conosciuto in una veste nuova, da neofita curioso e allievo molto disciplinato; il secondo è che lui è stato anche il testimone dell’incontro tra Lucio e Pasquale Panella, di cui ricorda l’immediato innamoramento».

Un LP in cui Battisti è raccontato con le sue stesse parole, canzone per canzone – primo e unico con i testi della moglie, alias Velezia. Forse perché sarebbe stato troppo presuntuoso da parte sua essere anche autore dei testi o peggio cantautore (termine che non ha mai amato)? Perché l’unico caso di liriche autobiografiche nella sua discografia, a tuo parere? E con quali risultati?
«Credo che il coinvolgimento di Velezia sia dovuto a due motivazioni concorrenti. La prima legata alla separazione da Mogol. Lucio immaginava che il primo disco senza Giulio Rapetti sarebbe stato oggetto di grande attenzione e voleva evitare paragoni ingombranti, per questo motivo non si cimentò direttamente e personalmente – o almeno non in maniera diciamo ufficiale – con i testi. Il secondo motivo è legato al clima familiare, l’unico porto sicuro in questa fase di transizione, così lunga e delicata: credo sia stato inevitabile condividere in maniera profonda la lavorazione del nuovo album con la moglie, tanto da coinvolgerla nella stesura dei testi. A un ascolto attento penso che sia stata una scrittura di coppia: probabilmente argomenti e temi chiave proposti da Lucio e messi “in bella copia” da Grazia. Al di là delle motivazioni e al di là anche dell’esito artistico – non si può nè affermare che i testi funzionino come quelli di Mogol, tantomeno che possano anticipare i guizzi panelliani – ciò che conta è che E già è un eccellente documento storico dal quale vengono fuori preziose indicazioni biografiche, dagli amori musicali elencati in Registrazione alla scoperta di nuove passioni come il mare e lo sport in Windsurf Winsdurf».

E già” (1982) Interno della cover ©Ph Gered Mankowitz

Preziosa la testimonianza di Gered Mankowitz, uno dei più importanti fotografi della storia del rock. Una copertina ispirata a un immaginario infatti pare rock – in alcuni scatti c’è qualcosa di pinkfloydiano – non è depistante rispetto al contenuto musicale? Quale la tua opinione?
«Spesso ho pensato che E già non potesse avere un lavoro grafico diverso. In primo luogo perché Lucio è sempre stato attento alle sue copertine, che hanno avuto un respiro internazionale pari alla sua musica. Serviva dunque un grande nome per creare qualcosa di forte per questo nuovo cammino. E la foto di copertina, che mostra i piedi che si avviano a un nuovo passo, è assai efficace. Inoltre la foto interna all’album, nata da un sogno fatto da Lucio stesso, mette in mostra un mondo interiore che sta cambiando e che l’artista vuole comunicare all’ascoltatore con simboli e segni. A pensarci bene, stando ai colori dominanti e al fatto che si tratta del primo disco di una nuova era battistiana, potrebbe essere di fatto il primo dei dischi bianchi».

Nel tuo libro c’è un dialogo verosimile tra Battisti e la moglie per spiegare la scelta del titolo “E già”: a cosa si può riferire più di tutto quell’espressione, alla luce delle tue ricerche? Come si potrebbe interpretare?
«Il dialogo in cui immagino la scelta del titolo è ovviamente di fantasia, ma mi piaceva l’idea che nella conversazione tra i due venisse fuori come titolo una locuzione semplice, immediata, senza intellettualismi. Questo della semplicità, o meglio ancora dell’alleggerimento da complessità inutili, non necessarie e non funzionali, è un tema centrale nel disco. Aggiungo che E già è anche uno dei brani più rappresentativi dell’album, nel quale Lucio incontra e adotta il pensiero “debole” dopo un decennio di dogmi e certezze. Quindi quale miglior manifesto per l’intero album?»

“La verità è solo un’immaginazione che una certezza propria non ha/
ti puoi avvicinare e questo servirà ma è sempre un’interpretazione”

Nel libro c’è riferimento al progetto di Patrizia Cirulli, una ricerca dell’anima melodica originale sotto la coperta elettronica. Come avrebbe suonato con arrangiamenti canonici “E già”? E a tuo parere avrebbe avuto maggiore risonanza, successo e fortuna per esempio pur con canzoni suonate in monotonale, ma accompagnate da liriche di Mogol?
«Il riferimento al disco della Cirulli è legato alla fama postuma – limitata a pochi cultori, come sappiamo – di quell’album. Unico della discografia battistiana ad avere avuto un album tributo integrale. E già è nato in un regime compositivo diverso dai precedenti, non più l’embrione dei pezzi voce e chitarra poi completati con i testi di Mogol, ma una ricerca elettronica e autonoma. La famosa “possibilità monotonale” di cui parla Lucio è proprio il primo passo di E già, ossia la possibilità di lavorare con nuove tastiere creando in autonomia pattern ritmici sui quali costruire melodie cantabili, però con un sapore diverso da quelle degli anni ’70, dunque più secche e urbane – oggi si può dire appunto più anni ’80 per intenderci. Non amo molto ragionare intorno ai “what if”: non so e non posso dire se con i testi di Mogol avrebbero funzionato meglio, non è successo. Però per questo tipo di musica i testi di Velezia sono stati perfetti. Possono non piacere ma hanno tradotto in immagine e parola quella sensazione di ripartenza e rivelazione che Mogol non avrebbe certamente potuto ricreare».

“Un album visionario e imperfetto ma straordinario documento storico
per capire la personalità di un artista che rifiuta definitivamente il rapporto con i media, la sua immagine, il dialogo col pubblico”.

Davvero si può considerare il primo passo di un cammino di rinnovamento che raggiungerà la sua vetta nei “bianchi” con Pasquale Panella? O un capitolo isolato, considerando non solo la qualità di “Don Giovanni” ma anche i ben quattro anni che intercorrono tra i due dischi, il periodo più lungo di silenzio in tutta la discografia di Battisti, quasi a indicare un altro ponderato cambio di rotta?
«Da una parte abbiamo quindici anni fittissimi con Mogol. Dall’altra dodici anni meno fitti ma altrettanto intensi con Panella. Al centro, in mezzo, questo disco angolare: una sorta di cerniera che però non ha nulla in comune con gli album precedenti e anticipa ancora poco dei successivi. Rispetto ai futuri dischi bianchi c’è una musicalità più schematica, più fredda o meglio meno espressiva, visto il limitato uso di strumenti e senza la comunicazione diretta e colloquiale di Mogol. Io lo ritengo un capitolo isolato sì, ma non disconnesso, anzi necessario: era doveroso azzerare quanto fatto con Mogol per ripartire in maniera seria e credibile. Certo, la rivoluzione vera e propria sarebbe arrivata poi con Don Giovanni (1986)».

Primo disco di pop italiano interamente eseguito con strumenti elettronici, un primato. Qual è il panorama discografico del 1982 quando si affaccia “E già”? Come si pone l’opera di Battisti nel contesto musicale di quel periodo, nazionale e internazionale?
«Dario Massari mi ha raccontato che insieme a Lucio ascoltava e commentava le principali novità straniere dell’epoca: Peter Gabriel, Brian Eno, Kate Bush, Eurythmics, Depeche Mode, Human League, OMD, insomma sia i colleghi del passato che più di altri si erano rinnovati, ma soprattutto le nuove leve del synth-pop, a loro volta figlie della rottura post-punk, più che del rock classico col quale era cresciuto Lucio. E già dunque è in linea con il nuovo pop britannico, molto distante dal pop italiano ma anche dalla canzone d’autore rinnovata, considerando i vari Battiato, Fossati e Pino Daniele che nel 1981 avevano pubblicato dei capolavori».

“Battisti segue una via solitaria ed è un fenomeno isolato in Italia”

Donato Zoppo a Milano, in uno degli appuntamenti della 1° edizione della manifestazione “Quel Gran Genio” dedicata a Lucio Battisti, settembre 2023 ©Ph Matteo Ceschi

L’ascolto da ieri a oggi: qual è il suo valore? Resta un esperimento apprezzabile da addetti di settore o un album da rivalutare? Per cosa soprattutto merita di essere ricordato e riascoltato?
«Credo che la forza e la cifra di Battisti sia sempre stata quella del continuo e costante rinnovamento: ogni suo album è un passo in avanti. Da questo punto di vista il passo di E già è anche laterale, una direzione unica nel suo genere. Il grande pubblico non è il giusto destinatario di un disco che non ha hit memorabili, forse solo Mistero. L’album però non è neanche da confinare a materia per uno zoccolo duro di cultori. È una strana terra di mezzo, anche per questo affascinante. Credo debba essere ricordato, al di là di dati specifici come l’elemento elettronico e quello autobiografico, per un valore molto elevato: è la dimostrazione del coraggio di un artista che azzera il successo e parte con una musica nuova che sentiva sua, al di là di qualsiasi prospettiva commerciale».

“Battisti è stato un artista la cui discografia è divisa in due fasi. E la seconda, di assoluto valore musicale e artistico, che piaccia o meno, non può essere ignorata nella ricostruzione e valutazione della sua figura”

Sei stato protagonista anche di un recente speciale su Lucio Battisti in onda su Raiuno nel settembre 2023, nel quale (purtroppo ancora una volta) non è stata menzionata la seconda parte della sua carriera, in primis proprio “E già” – ma già da Anima Latina (1974) in poi si è tagliato corto…Oggi, anche per l’assenza di questo album insieme ai “bianchi” dalle piattaforme digitali, in che misura il pubblico medio riesce a godere e cogliere la seconda fase di Battisti, riconoscendola parte integrante della sua carriera e immagine? E in che misura prevale ancora l’immagine mogolbattistiana sull’altra?
«Nel 1979, con la sua ultima intervista, Lucio Battisti scelse il silenzio. A parlare ci avrebbe pensato esclusivamente la sua opera. Fine delle interviste, della promozione e dell’immagine pubblica. Non so, onestamente, se lui avesse potuto prevedere quello che sarebbe successo in seguito, ma a causa di questo silenzio e di una politica netta e rigorosa (benchè più che legittima) da parte degli eredi, negli anni si è andata consolidando una visione “istituzionale” più vantaggiosa per Mogol, che invece all’esposizione mediatica non si è mai sottratto (posizione legittima anche per lui). Risultato? Un qualsiasi tipo di speciale o show in Rai finisce a far uso dell’unico materiale d’archivio disponibile e funzionale al pubblico della prima serata, ossia quello del Battisti nazional popolare. Se si aggiunge che la discografia post-Mogol non è disponibile su Spotify il quadro che ne emerge è eloquente. Al tempo stesso, se questa è stata la volontà di Lucio, che è sempre stato molto lucido, determinato e consapevole, probabilmente dobbiamo accettare che il Battisti più amato e popolare sia quello con Mogol e che la fase successiva sia e sarà volutamente destinata a un limitato pubblico di cultori. Tuttavia chi studia la sua figura, chi si occupa di scriverne e diffondere informazioni sulla sua opera completa ha il dovere della correttezza e del rispetto».

Luca Cecchelli
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